IL ”GRILLO PARLANTE” DEL PDL IN FVG
di MARCO BALLICO
UDINE Dice di essere «per» e non «contro». Insiste sulle civiche alle amministrative e su Roberto Dipiazza alle europee. Critica una volta ancora Isidoro Gottardo e un Pdl «senza dibattito». Ma non si tira fuori e smentisce le voci di un nuovo partito: «Lavorerò per cambiare il nuovo soggetto del centrodestra». Ferruccio Saro, il giorno dopo aver radunato i sostenitori a Martignacco, rilancia le sue battaglie.Senatore Saro, perché continua ad andare contro?Se si fa un’analisi delle mie scelte si deve ammettere che io agisco «per» e non «contro». Non avessimo ceduto alla Lega nel 2003 il candidato presidente, non avremmo perso la Regione. Nel 2006, alle provinciali di Udine, mi accorsi che Strassoldo aveva iniziato a muoversi in una logica sganciata da ragionamenti politici. Anche in quel caso si è visto ciò che è successo. Forse ho un torto: vedo le cose prima degli altri.Si dice che sosterrà i suoi uomini sul territorio contro il Pdl. Non è un andare contro?Pensare di omologare il territorio è un errore. Bisogna prendere atto delle diversità esistenti negli enti locali, dove si vota per questioni amministrative e non politiche. Spero ci sarà l’intelligenza di trovare punti d’incontro tra partiti e civiche.Il Pdl, invece, intende riproporre lo schema delle regionali. Rischia di perdere?Rischia intanto di non capire una realtà politica territoriale, specie in Friuli, in cui è scarsamente radicato, mentre vari amministratori guardano dalla nostra parte, specie in conseguenza delle crisi del Pd. I fattori locali sono decisivi e vanno costruite alleanze con loro.Il Pdl nasce con i difetti di Fi?Dipenderà dalle gestioni regionali. Attorno alla leadership carismatica di Berlusconi si dovranno trovare contenuti politici facendo sintesi sul territorio. In quel caso ci sarà un futuro.Se questo futuro non ci sarà, lei se ne andrà? E magari fonderà un nuovo partito?Non me ne andrò. Mi batterò fino in fondo perché il Pdl cambi. Così come mi batterò perché Dipiazza sia candidato alle europee.Perché Gottardo non la convince nel ruolo di coordinatore?Ho posto una questione politica: il modello da costruire deve rispettare, coinvolgere, essere partecipato. Alla luce dei fatti non ho visto da parte di Gottardo attenzione su questi temi. Se si continua a gestire le cose in ambiti circolistici, il pericolo è che scoppino le contraddizioni. Se non si diventa inclusivi, si rischia la fine del Pd.Fi e Pdl l’hanno nominata in parlamento, circolo esclusivo. Come mai non ha iniziato a chiedere inclusione allora?Sono nominato ma rimango da sempre autonomo. Se mi valorizzano è perché mi rispettano: non sempre servono cortigiani ed esecutori di ordini in politica. Anche sul testamento biologico i fatti mi daranno ragione.Si deve tornare alle preferenze?Anche con quel sistema si eleggevano gli indicati dai partiti. Il problema è sempre quello di selezionare persone intelligenti e capaci.C’è stata in queste settimane una reale alternativa a Gottardo?C’è stata una prorogatio generale dei coordinatori. Vedremo che accadrà in seguito.Come giudica la giunta Tondo?Il presidente sta lavorando molto bene in una fase difficile. Va aiutato a risolvere la crisi rafforzandone la leadership politico-amministrativa. Il suo ruolo è determinante per la salvezza del sistema economico regionaleL’altra sera a Martignacco c’erano ex socialisti, ex consiglieri regionali, ex presidenti di Friulia. Che politica è quella degli ex?Ci troviamo di fronte a problematiche, dalla crisi del libero mercato all’immigrazione, che il vecchio armamentario politico non avrebbe mai pensato di dover prendere in considerazione. E’ un ciclo finito ma, non ci fosse stato il mondo ex socialista e della sinistra democristiana, non ci sarebbe stato Berlusconi: avrebbero spazzato via lui e le sue televisioni. Abbiamo avuto una storia, io non la rinnegherò mai.Facciamo chiarezza. Chi ha migliori rapporti con Berlusconi: lei o Gottardo?Lo scopriremo solo vivendo.
IN ABRUZZO IL GOVERNO AIUTA GLI IMPRENDITORI TERREMOTATI: 800 EURO AL MESE
«Troppi provvedimenti d’urgenza». Contatti Maroni-Franceschini per la data del referendum
di GABRIELE RIZZARDI
ROMA Stop ai decreti «omnibus» che giungono alla firma del Quirinale in una forma completamente diversa da quella originale e «ledono i poteri del Capo dello Stato». Provvedimenti che devono essere firmati a ridosso della loro scadenza e «non consentono» al Presidente della Repubblica di esercitare i poteri di garanzia previsti dalla Costituzione: verificare la sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza e la correttezza della copertura economica.Giorgio Napolitano torna a strigliare governo e Parlamento e, con una lettera inviata il 9 aprile scorso a Silvio Berlusconi, ai presidenti di Camera e Senato e al ministro Giulio Tremonti, manifesta tutto il suo disappunto.Stanco di dover firmare decreti completamente diversi da quelli autorizzati in precedenza, il Presidente della Repubblica invita a porre un freno ai provvedimenti urgenti varati dal governo che, in Parlamento, si ampliano a dismisura e alla fine contengono norme diverse da quelle approvate in Consiglio dei ministri. Un procedimento che comporta necessariamente anche maggiori spese.Il riferimento di Napolitano è al decreto incentivi che è stato approvato definitivamente l’8 aprile scorso dal Senato e sul quale il governo ha posto la fiducia. Un provvedimento che conteneva in origine solo misure per le imprese (bonus per rottamare vecchie auto, sconti fiscali per cambiare lavastoviglie), il cosiddetto «pacchetto precari» e lo «scudo» per le società quotate in Borsa. Poi, nel suo cammino parlamentare, il decreto si è arricchito di nuovi capitoli e, all’ultimo momento, sono stati inseriti anche i provvedimenti sulle quote latte fortemente voluti dalla Lega e che hanno costretto il governo al maxiemendamento.Il testo, che all’inizio si componeva di 7 articoli, alla fine ne conta 17 con un onere aggiuntivo di 1 miliardo e 300 milioni di euro. Il tutto, presentato alla firma di Napolitano a poche ore dalla scadenza naturale del provvedimento.Davvero troppo per il Capo dello Stato, che ieri sera ricorda come simili richiami siano stati fatti anche ai «precedenti governi». Il messaggio di Napolitano è comunque chiarissimo: i decreti legge sono emendabili ma non possono comprendere materie estranee a quelle per le quali ne ha autorizzato la presentazione alle Camere valutando i requisiti di necessità e urgenza. Nelle intenzioni del Capo dello Stato, la lettera inviata il 9 aprile scorso doveva restare riservata ma nel pomeriggio di ieri qualcuno l’ha resa nota. Il tutto è avvenuto proprio mentre al Quirinale era in corso l’incontro con il presidente del gruppo di riflessione sul futuro dell’Europa, Felipe Gonzales. Un incontro al quale ha partecipato anche uno dei destinatari della lettera, Gianfranco Fini, che si trincera dietro uno strettissimio riserbo: «La lettera? Chi la riceve non la interpreta». Ad applaudire al richiamo del Colle sono invece gli esponenti dell’opposizione.
PIANO REGOLATORE, INTERVISTA AL SENATORE TRIESTINO
PIANO REGOLATORE, INTERVISTA AL SENATORE TRIESTINO
Il fratello Piero reclamava lo slittamento del voto: «Non sono d’accordo con lui»
di SILVIO MARANZANA
Se anche il «Grande burattinaio che difende le rendite di posizione», come non più tardi di ieri lo hanno additato in modo poco ossequioso i suoi avversari politici, si pronuncia a favore della massima accelerazione per il Piano regolatore del porto rompendo, seppure dopo solleciti, il suo proverbiale silenzio, allora non c’è proprio partita. Giulio Camber si schiera accanto al sindaco Roberto Dipiazza, e incidentalmente assieme al centrosinistra, perché il Consiglio comunale approvi le intese nella seduta di lunedì 27 aprile. E lo fa senza sapere che nel frattempo il fratello Piero Camber, capogruppo di Forza Italia in Consiglio comunale, che reclamava lo slittamento per una votazione congiunta con il Piano regolatore del Comune, come si legge a fianco ha aggiustato il tiro dopo aver ottenuto il Piano portuale su supporto informatico. «Il gruppo di Forza Italia lunedì 27 aprile voterà serenamente con congnizione di causa», ha annunciato ieri pomeriggio Piero Camber. Ogni richiesta di rinvio sembra sparita. Nel frattempo Giulio Camber non ha eluso alcuna domanda, senza rinunciare alle battute di spirito.Senatore Camber, il Partito democratico sostiene che dietro la richiesta di rinvio di suo fratello e il ricorso in appello dell’Associazione porto franco internazionale contro l’apertura del Porto Vecchio ci sia una regìa comuune: la sua. È vero?Lo sanno tutti che la persona con la quale vado meno d’accordo è mio fratello Piero. Quanto a quei signori dell’Associazione porto franco non li frequento.La sua posizione sul Piano regolatore del porto, qual è?Ci sono due livelli della questione: uno tecnico in base al quale sono comprensibili le esigenze di voler valutare e votare assieme i due strumenti urbanistici, e uno politico-fattuale che deve tener conto del fatto che effettivamente il Cipe sta valutando la spartizione dei finanziamenti e che c’è un importante incontro proprio mercoledì. Per cui questo secondo aspetto deve prevalere: portati a casa i soldi, nessuno potrà aver nulla da ridire.È dunque opportuno che il Consiglio comunale voti il 27 aprile?Date queste premesse, certamente sì.E sulle attività di portualità cosiddetta allargata in Porto Vecchio lei è favorevole?È stato Boniciolli a restringere le tipologie di possibili insediamenti in Porto Vecchio, l’ipotesi precedente prevedeva una maggior apertura del porto alla città.Ma giuridicamente si può trasferire una porzione di Punto franco?Possono esserci due interpretazioni contrarie. Alla fine deciderà la politica.Allora lei non difende gli operatori locali che pretendono che il Porto Vecchio rimanga sempre e solo porto?Chi sarebbero? Qualche azienda agonizzante o praticamente morta? Non difendo i morti.Non ci sono allora battaglie politiche sulla pelle del porto e della città?Ma quali battaglie, ci sono solo alcuni che agitano fantasmi o magari che sostengono che c’è il Diavolo.Ma la religione cattolica crede al Diavolo, no?Anche Andreotti ci crede, ma qui noi portiamo solo croci quotidiane.Lei lo sta vedendo il porto in fase di decollo?Vedo un bicchiere per un quarto pieno e per tre quarti vuoto. È giusto guardare al quarto pieno, ma c’è una progettualità ridotta rispetto al passato anche se Boniciolli pubblicizza qualsiasi minima iniziativa come una trovata geniale. E poi c’è la questione del lavoro che rimane grave. La Compagnia portuale è praticamente sparita, ma nessuno si è strappato i capelli.Il Molo Settimo sta guadagnando posizioni e sono arrivati operatori internazionali.Al Molo Settimo sta operando un terminalista privato e infatti Pierluigi Maneschi è l’unica lieta novità del porto di Trieste di questi ultimi anni. Poi certo c’è Samer che procede con progressi costanti, Gavio doveva entrare più massicciamente cinque anni fa, poco altro ancora.La vicenda Scalo Legnami come la giudica?Non me ne occupo in prima persona, leggo solo i giornali.A un certo punto alcuni tra cui il presidente della Camera di commercio Paoletti hanno denunciato un tentativo di accerchiamento di Luka Koper su Trieste, tramite lo Scalo Legnami appunto e ventilati accordi tra gli autoporti di Fernetti e di Sesana.Paoletti ha fatto bene, era vero. Non si può portare il proprio vicino concorrente a casa propria e poi pretendere che non ricordi come abbiamo sistemato i mobili.Le prospettive economiche come sono?Vediamo e speriamo, purtroppo i protagonisti sono gli stessi da anni e anni: nulla si crea e nulla di distrugge. Oggi c’è una certa buona sinergia politica tra Comune, Regione, Camera di commercio. È che bisogna sempre lottare per poco, anche per qualche fetta di mortadella.Conosce già il nome del prossimo presidente dell’Autorità portuale?Dovrei conoscere prima quello del prossimo sindaco, ma non so nemmeno se Dipiazza si candiderà alle europee.Si è mai mosso per dare un qualche indirizzo alla politica delle amministrazioni locali?Non mi sono mai permesso di mettere becco.Ogni tanto qualche consiglio a Dipiazza lo dà?Non mi immischio, del porto poi sono anni che non parlo con Dipiazza. Chiedete a lui se ho mai chiesto qualcosa. Ciò che è vero è che magari ho aiutato qualche personaggio politico a emergere e può essere stato così anche per Dipiazza.A favore di qualche politico per qualche poltrona, non ha mai manovrato?Sì, c’è un caso molto recente e importante per il quale, come si dice a Trieste, mi sono ”missiato” molto. È stato per riportare Renzo Tondo a fare il presidente della Regione. Contro Illy non ci credeva praticamente nessuno che avrebbe vinto. Ora tutti sanno chi ha avuto ragione.
MARIO SEGNI
di MARCO BALLICO
TRIESTE La Lega Nord? «Ha messo in campo una posizione irresponsabile». Silvio Berlusconi? «Ha mancato di coraggio». Mario Segni, coordinatore del comitato referendario, prende atto di quanto sta accadendo nel governo sulla data della consultazione sulla legge elettorale, ma non si arrende. E rilancia l’election day: «È la strada maestra, spero che il Carroccio si renda conto di avere commesso un errore madornale. E spero anche che gli italiani abbiano un sussulto di consapevolezza».Segni, pare che si voti per il referendum o il 21 giugno o che si vada addirittura al 2010. Che ne pensa?Governo e maggioranza si contorcono su se stessi e sono alla disperata ricerca di vie che li tolgano dall’imbarazzo senza però riuscire a trovare una soluzione. Capita quando non si accetta l’unica cosa giusta da fare: election day il 6 e 7 giugno.Perché?Per due motivi. Non solo quello dei costi ma anche quello della civiltà. Negli Stati Uniti, nel novembre scorso, quando si è scelto Obama presidente, si è votato anche per 153 referendum.La Lega Nord?Il suo è un atteggiamento irresponsabile.E quello di Berlusconi?Diciamo poco coraggioso.Fosse stato nei suoi panni?Avrei deciso per l’accorpamento. Sono convinto che la Lega non provocherebbe la crisi.Si metta però nei panni della Lega: se vince il sì, Berlusconi potrebbe governare senza Bossi.Comprendo le paure della Lega e considero legittimo che non sia d’accordo con i contenuti referendari. A quel partito chiedo però perché non voglia cambiare una legge che il suo ministro Calderoli ha definito ”porcata”. Se è d’accordo con lui, il Carroccio ci dovrebbe dire come modificare questo testo. E invece va contro il referendum e lavora quindi per tenere in vita una ”porcata” che riempie il Parlamento di nominati anziché di eletti.Ha qualche speranza che le cose possano cambiare come lei auspica?Spero che la Lega si accorga dell’errore. E che non sia diventato, da partito del risparmio, partito della spesa facile quando spendere soldi pubblici in più va nel suo interesse. Il Carroccio abbia il coraggio di affrontare una battaglia politica e non cavalchi ambiguamente l’astensione.Si votasse il 21 giugno, il giorno dei ballottaggi delle amministrative, quanto difficile sarebbe arrivare al quorum?Difficoltà altissime, ma rimango fiducioso in un sussulto di consapevolezza degli italiani. Serve uno scossone per evitare che la casta si impadronisca di tutto, cosa resa possibile proprio a partire da una legge elettorale ignobile. Si deve iniziare da questo cambiamento a lavorare per un Paese più moderno.Come si sta muovendo l’opposizione sul tema dell’accorpamento?Do atto a Dario Franceschini di una posizione seria e coraggiosa e lo ringrazio. Ricordo anche a tutti la posizione altrettanto coraggiosa e coerente di Gianfranco Fini.Ma quanto si spende davvero se non si accorpano gli appuntamenti elettorali?I conti, molto puntualmente, li ha fatti La voce.info. Se si vota il 14 si sprecano 400 milioni, se si vota il 21 se ne buttano via 313.L’istituto referendario va cambiato?È un bene prezioso per la democrazia. Va rilanciato e rivitalizzato, salvandolo dal rischio di essere ucciso dall’antica regola del quorum che trasforma le battaglie politiche in fughe verso l’astensione.
IL CORAGGIO DI PROVARCI
FIAT-CHRYSLER L’AUTO RIPARTE di FRANCO A. GRASSINI
I più anziani rammentano che uno degli slogan in voga nel 1968 e per qualche altro anno da parte dei sessantottini era: «La fantasia al potere». Quello che politicamente non si è realizzato, potrebbe ora prendere forma concreta se Fiat riuscirà a far andare in porto l'accordo in discussione con la Chrysler.Uno dei molti pesi, infatti, che gravano sull'industria automobilistica americana e ne hanno determinato la crisi è rappresentato dall'onere per le pensioni dei propri dipendenti. Nel caso specifico si stima si tratti di oltre 10 miliardi di dollari. La soluzione individuata con molta fantasia e molto coraggio da parte della Fiat è quella di trasformare anche questo debito in azioni della stessa Chrysler, azioni che sarebbero attribuite a un fondo gestito dall'Uaw, il potente sindacato dei lavoratori dell'automobile. Quanto del capitale sarà attribuito a questo fondo è ancora in discussione, ma sembra si tratti da un minimo del 20% a qualcosa di più. Il che indica chiaramente due cose. La prima che, poiché anche la società torinese avrà un 20% della Chrysler in cambio della sua tecnologia, la valutazione di tale apporto da parte degli esperti nominati da Obama è, più o meno, lo stessa che la Borsa italiana attribuisce a tutta la Fiat.La seconda, e certamente molto più importante, è che nel consiglio d'amministrazione della Chrysler siederanno persone scelte dal sindacato. Ancora si ignora se, come riferisce il New York Times, saranno degli indipendenti graditi all'Uaw, o addirittura dei sindacalisti. Sia come sia, si tratta di un fatto di notevolissimo significato perché negli Usa i consigli d'amministrazione, almeno in teoria perché in pratica la situazione è spesso diversa, hanno un ruolo fondamentale, in particolare nella scelta del numero uno aziendale. Anche in Germania ci sono rappresentanti dei lavoratori, ma solo nel consiglio di sorveglianza che si occupa di scelte strategiche e non della gestione quotidiana.Il coinvolgimento dei dipendenti nelle decisioni e il loro interesse patrimoniale nell'andamento aziendale modifica l'approccio prevalente negli Stati Uniti troppo spesso orientato a risultati di breve termine. Le Borse guardano ai risultati trimestrali e valutano di conseguenza le azioni. I massimi dirigenti, quasi sempre compensati con stock options e analoghi premi, hanno spesso perso visioni strategiche. Fiat e sindacati, quindi, dovranno cercare di comprendere come il mondo evolverà in futuro e in particolare come si ristrutturerà l'industria automobilistica globale. Si tratta di un compito molto, molto difficile in cui fiducia personale e trasparenza giuocheranno un ruolo fondamentale.Del resto, se consideriamo che il mondo resterà globale anche dopo la crisi in corso, e la concorrenza dai Paesi in via di sviluppo sempre più intensa, i lavoratori dell'industria automobilistica, sin qui tanto ben remunerati da essere considerati ceto medio, dovranno affrontare non piccoli sacrifici.
MODA
MODA
di ARIANNA BORIA
«Per lei la donna era un essere umano, non soltanto una femmina. Non so se la parola ”signora” abbia ancora un senso in questi giorni distratti e disarmonici, ma da lei entravano delle animale, sciattone, infiocchettate, rozze, trasandate e uscivano veramente delle ”signore”. Almeno all’apparenza...». È il 18 settembre 2008, dodici giorni dopo la scomparsa di Mila Schön, e Mina rompe il silenzio mediatico per affidare a ”Vanity fair” il suo ricordo della stilista dalmata.Siamo nel 1969 e la cantante varca per la prima volta la porta dell’atelier di via Montenapoleone per scegliere gli abiti da indossare in uno dei Caroselli che fanno parte della storia della televisione, quello per la cedrata Tassoni. Lo confessa Mina stessa: è uno dei rarissimi momenti nella sua vita in cui è in peso perfetto, ”taglia indossatrice”, come si dice all’epoca, tant’è che una delle mannequin interne dell’atelier le presta un suo body per la prova degli abiti.Mina è diffidente verso una griffe che ha la fama di vestire soprattutto il jet-set internazionale, da Marella Agnelli a Lee Radziwill, la sorella minore di Jackie. Ma dopo un po’ l’atmosfera si sgela e si instaura un rapporto di fiducia che durerà negli anni: «Mila - racconta Mina - mi guardava con gli occhi intelligenti che non nascondevano un’arietta tra il divertito e il compiaciuto. Compiaciuta delle sue cose che erano veramente clamorose. Con un taglio da architetto, severe, nobili, senza concessioni alla bassa femminilità. Insomma, roba serissima. Avevo comprato da lei, ricordo, un completo grigio chiaro: vestitino cortissimo, cappottone maxi, stivali alla coscia e cappello di volpe. Tutto dello stesso colore. Poco fa ho cercato in un armadio e ho ritrovato il vestitino, perfetto... Adesso mi andrebbe bene a una coscia...».È una delle testimonianze raccolte nell’imponente «M as Mila Schön», il volume con i testi di Patrizia Gatti e la cura artistica di Daniele Costa che arriva nelle librerie martedì pubblicato da Electa (pagg. 366, euro 75), sette mesi dopo la scomparsa della stilista di Traù, morta il 5 settembre 2008 a 89 anni.Ricordi di quanti condivisero con lei una straordinaria carriera, spezzoni di interviste, riproduzioni di articoli e di copertine, i bozzetti che raccontano uno stile sempre in evoluzione eppure sempre fedele a se stesso. E, soprattutto, le bellissime foto di Ugo Mulas, immagini di un gusto che ha attraversato le brevi e inquiete epoche della moda, dagli anni Sessanta ai Novanta, senza perdere la sua cifra inconfondibile: sobrietà, rigore, misura, equilibrio anche nell’innovazione. «Una cosa che mi fa inorridire sono le stravaganze a tutti i costi», diceva.Mila stilista per caso dopo il tracollo finanziario del marito, Aurelio Schön, commerciante di preziosi, da cui si separa rinunciando a tutto. I primi modelli presentati alle amiche dell’alta società meneghina, incuriosite e un po’ perplesse, nella casa della madre, Bianca Zacevic della famiglia dei Luxardo del maraschino, in via Felice Casati, anno 1957. Con lei c’è Enrica Colombo, la giovane sarta di «Rina Modelli», uno dei più celebri laboratori milanesi dove si realizzano abiti copiati dalla couture francese, che rimarrà al suo fianco come première per trentasei anni.Le immagini, più di qualsiasi parola, raccontano gli incontri, le occasioni, le trasformazioni, i successi internazionali della griffe Mila Schön, che debutta, nella Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze, nel gennaio 1965. Una collezione breve, preparata col nodo in gola, a pochi mesi dalla morte di mamma Bianca, con dentro già tutto lo stile Schön: i primi tessuti double in ecrù e grigio accostati ai colori pastello, i tailleur, i cappotti, gli abiti più aderenti al corpo e mai oltre il ginocchio, le spalle piccole e comode, le proporzioni perfette. Il pubblico applaude emozionato, ma Mila torna a Milano con tutti i suoi capi, «perchè - racconterà in seguito - mi avevano consigliato di non vendere a scatola chiusa agli americani. E io volevo entrare in quel mercato nel modo giusto».Ecco Mila, infatti, poche pagine dopo, sulla scaletta di un aereo insieme al fidato Loris Abate, a lungo amministratore delegato, in partenza per gli Stati Uniti dove, con Valentino, è stata per anni considerata la quintessenza dello chic, la ”Coco Chanel italiana”, come la definì Diana Vreeland, direttrice di Vogue America.Ecco il ballo in maschera al Plaza Hotel di New York, nel novembre 1966, organizzato dallo scrittore Truman Capote per festeggiare il successo del suo ultimo romanzo ”In cold blood”. Cinquecento invitati per il primo tappeto rosso di cui si abbia cronaca, su cui sfilano Nelson Rockefeller e Henry Fonda, Frank Sinatra e Andy Warhol e le donne più belle del mondo, Marisa Berenson, Candice Bergen, Lauren Bacall. Marella Agnelli e Lee Radziwill vestono Mila Schön, la prima un caftano ricamato a cerchi e righe in perle e paillettes color argento, la seconda un abito a guaina con uno strato di chiffon dai motivi a onda, entrambe semplicissime e superbe. ”Women’s Wear Daily”, la rivista che compila la lista delle signore ”best dressed”, non ha dubbi: sono la prima e la terza tra le più eleganti, per la griffe un trionfo.Marella, Lee, la stessa Jackie («ricordo - dice Mila - quando venne a trovarmi per la prima volta nel mio albergo a New York: si annunciò con una semplice telefonata, poi decise tutto con poche parole, scelgo questo, e quest’altro, e quest’altro, senza modifiche, senza capricci. Dopo due ore eravamo amiche e visto che si era fatto tardi, siamo andate a mangiare due sandwich insieme...»), e poi Imelda Marcos (che ordinò un abito con lo strascico lungo come la chiesa che doveva inaugurare), Farah Diba, Ira Fürstenberg, Britt Ekland, Sylva Koscina, Catherine Spaak, Virna Lisi, Mina, Milva...Scorrono le copertine, Vogue, Amica, Grazia, Oggi, Gente, e gli anni dello stile Mila Schön. Il 1965 con i beige e marron, in tutte le sfumature, che conquistano il Neiman Award, l’Oscar americano della moda per il colore. Il 1968 dei costumi-gioiello, tempestati di pietre dure, presentati a Capri. Un anno dopo la prima divisa su misura per le hostess dell’Alitalia, tailleur e mantello «verde Italia» su blusa blu, cui seguiranno le versioni «rosso Manciuria» e gialla, per le assistenti di terra.Nel ’71 il negozio in via Condotti, set delle campagne fotografiche dell’amico Ugo Mulas con una delle mannequin preferite, Benedetta Barzini. Poi gli abiti da sera ispirati all’arte di Fontana, Noland, Klimt, Vasarely, lo sbarco in Giappone, prima griffe alla conquista dell’Oriente commerciale, l’incontro con Reza Pahlavi e con la seconda moglie, Farah Diba, che la strappa al contratto miliardario di Alitalia e le commissiona le divise per le hostess di Iran Air.Piccolo atelier, poi maison, poi multinazionale dello stile con quasi trecento dipendenti a metà degli anni ’80. Mila regna su un piccolo impero che va dalle collezioni uomo e donna ai profumi, dagli occhiali, alla valigeria, alle piastrelle, agli orologi, ai kimono. Il suo stile segue i tempi senza adeguarvisi, le nudità degli anni Ottanta diventano sulle sue passerelle trasparenze discrete, chiffon stampati, i Novanta li attraversa con tailleur impeccabili e pantaloni morbidi, ricami e velluti accostati al lamè per la sera.La sua ultima passerella è a Parigi, nel 1993, lo stesso anno della cessione definitiva della società ai partner giapponesi Itochu. Investimenti azzardati, le conseguenze della crisi del Golfo, alcuni negozi di punta costretti a chiudere, una holding diventata enorme e incontrollabile, spingono a vendere tutto. Quella sfilata parigina, interpretata da Naomi, Marpessa, Carla Bruni, le top più top del momento, è una sorta di regalo del figlio Giorgio alla madre.Poi la ”signora dello stile” esce pian piano di scena. Il libro si chiude qui, anche se la griffe va avanti e, da un paio di anni, con le belle collezioni couture di Bianca Gervasio, che cita Mila con intelligenza. «Valorizzare per me vuol dire personalizzare, far risaltare nelle donne, e in genere nelle persone, la cosa migliore che hanno».
Il ministro a San Dorligo ridimensiona il caso: «Mettevo in guardia sui provocatori»
di MADDALENA REBECCA
Per lui l’incidente diplomatico è definitivamente chiuso. Anzi, a dire il vero, non si è mai aperto. Perché, chiarisce, scrivendo l’ormai famosa lettera al sindaco Dipiazza non intendeva certo accusare Trieste di persecuzioni ai danni della minoranza slovena, ma semplicemente invitare a tenere alta la guardia contro i gravi e frequenti imbrattementi di iscrizioni e monumenti.Getta acqua sul fuoco e ridimensiona il caso innescato dalle sue critiche alla città, il ministro per gli sloveni all’estero, Boštjan Žekš. Lo fa durante la prima visita in regione in veste di componente del nuovo governo di Lubiana. Visita che inserisce in programma l’incontro con i vertici delle categorie economiche slovene, con la giunta di San Dorligo guidata da Fulvia Premolin e, nel pomeriggio, con l’amministrazione di San Pietro al Natisone, ma che non prevede invece alcun faccia a faccia con Roberto Dipiazza. Nessun nuovo strappo però, lascia intendere Žekš. Le cose con il primo cittadino sono già state in qualche modo chiarite. «Mi ha fatto molto piacere sapere che il sindaco ha a cuore il problema della convivenza tra italiani e sloveni e che si sta adoperando in questo senso - precisa il ministro -. E mi ha rallegrato ancora di più il suo invito a visitare Trieste. Cosa che farò volentieri perché mi permetterà di vedere tutte le azioni positive che, anche sul fronte dei rapporti con la minoranza, sono state avviate nella vostra città. La data non è ancora stata fissata, ma posso anticipare che vedrò Dipiazza alla prima occasione utile».Il futuro incontro riconciliatore con il primo cittadino, tuttavia, non cancellerà tanto facilmente le polemiche di questi giorni, legate alle espressioni forti contenute nella lettera incriminata: una fra tutte, l’immagine della «pericolosa marcia dei suscitatori di intolleranza interetnica» che potrebbe minare la stabilità di Trieste. «Personalmente però - replica secco Žekš - non credo proprio di aver usato toni pesanti. Ho semplicemente richiamato l’attenzione su episodi che, in Slovenia e anche all’interno della minoranza italiana, hanno destato viva preoccupazione. Mi riferisco alle provocazioni rappresentate dagli imbrattementi di monumenti e iscrizioni. Azioni gravi che, per molti di noi, rappresentano delle vere e proprie ferite. Era giusto quindi che io, come ministro degli sloveni all’estero, richiamassi l’attenzione sul problema. Credo di averlo fatto nel modo corretto. E, sia chiaro, ho agito di mia iniziativa, senza ascoltare i suggerimenti di nessuno». Un riferimeno fin troppo chiaro a quanti ipotizzavano che, dietro alla lettera, si nascondesse la mano di qualche «cattivo consigliere». Quanto alla veemenza di alcune critiche arrivate da esponenti del centrodestra triestino (Roberto Menia, per esempio, aveva bollato l’iniziativa del ministro come «propaganda ridicola» ndr), Boštjan Žekš neanche si scompone. «Guardi, le organizzazioni slovene più accese mi hanno accusato di aver usato toni troppo morbidi in quella lettera, mentre in Italia molti hanno parlato di contenuti eccessivamente duri. E dal momento che la verità di solito sta nel mezzo, avendo io scontentato tutte e due le fazioni, credo di aver agito con equilibrio». Lo stesso senso dell’equlibrio che l’ha spinto a scrivere direttamente al sindaco di Trieste, senza investire direttamente della questione il governo italiano. «Se fossi il ministro degli Esteri avrei inviato la lettera a Roma - chiarisce ancora l’esponente dell’esecutivo di Lubiana -. Ma visto che mi occupo di minoranze slovene che vivono in altri territori, credo che i miei principali interlocutori debbano essere proprio gli amministratori di quei territori. In questo caso, quindi, l’interlocutore giusto era il sindaco Dipiazza».
CALCIO SERIE B
di CIRO ESPOSITO
TRIESTE Agazzi abbandona la sua porta e tenta di rendersi utile in attacco su una punizione calciata da Allegretti. È il 93’: sembra la finale di Champions League. Invece manca un minuto alla chiusura del 35.o match di serie B. Un match che la Triestina doveva vincere e invece ha perso. Un match normale, contro un avversario normale. Il Grosseto non ha rubato nulla, ma si è presentato al Rocco con scarse velleità di cogliere i tre punti. Che l’Unione non fosse nella sua miglior giornata lo si è capito sin dai primi minuti. Ma dopo un discreto avvio e il gol del vantaggio di Della Rocca la partita sembrava in discesa. E invece l’Unione ha subito l’uno-due dei toscani prima e dopo l’intervallo. La squadra di Maran ha riacciuffato il pari con una punizione del neo-entrato Allegretti. Ma dopo 2’ si è fatta superare da un colpo di testa di Pichlmann. Adesso i tifosi attenderanno i risultati di oggi. E la matematica terrà ancora la Triestina agganciata ai play-off. Ma sulla prestazione complessiva contro questo Grosseto tecnico, giocatori e società dovranno fare una seria riflessione.L’AVVIO Maran conferma la formazione che ha maramaldeggiato contro il Rimini. L’inizio è promettente anche se la Triestina non ha il piglio per affondare un avversario che si limita a svolgere il suo compitino. Testini sulla sinistra è una spina nel fianco dei toscani mentre Antonelli sulla destra fatica a decollare. Già al 4’ un cross dalla sinistra di Testini non è capitalizzato da Della Rocca che però al 26’ su analoga manovra è bravo a metterla dentro di testa. La partita scivola via senza acuti. Gli alabardati controllano gli avversari che manovrano di più ma senza pungere. Al 45’ l’inerzia dell’incontro cambia. Difesa di casa distratta e rete di Sansovini che fino a quel punto mai aveva visto la porta difesa da Agazzi. LA RIPRESA Il pareggio prima di entrare negli spogliatoi è un colpo basso. Ma non dovrebbe esserlo per una squadra che punta in alto e che comunque ha dato la sensazione di avere nei primi 45’ qualcosa in più rispetto agli avversari. Invece Princivalli e compagni continuano a recitare lo stesso copione e il Grosseto prende coraggio. Al 12’ Princivalli serve il vivace Testini in area ma il pallonetto dell’esterno sinistro finisce alto. Maran sente che è il momento di osare. I fatti non gli danno ragione. Esce Rullo (18’) ed entra Allegretti. Il tecnico rivoluziona l’assetto. Cacciatore si sposta a sinistra e Gorgone va diligentemente a coprire la destra. E arrivano tre occasioni-gol limpide degli ospiti. Al 25’ Agazzi fa un miracolo respingendo in uscita con la gamba il lanciatissimo Pellicori e dopo due minuti un liscio di Cacciatore dà via libera a un diagonale di Gessa che sfiora il montante alla destra di Agazzi. E al 29’ arriva l’incornata di Pellicori che batte l’estremo difensore alabardato. L’ILLUSIONE Maran gioca il tutto per tutto: fa uscire uno spento Antonelli e getta nella mischia Cia. In contemporanea Ardemagni rileva Della Rocca. Ma è Allegretti a dare l’ultima scossa al Rocco al 42’. Il centrocampista posiziona con cura il pallone dai 20 metri: la parabola è buona e fortunata. Il pareggio non cancellerebbe la prestazione ma farebbe muovere la classifica. E invece passa un minuto e succede il patatrac. Punizione dalla trequarti sinistra di Mora, palla morbida sul secondo palo e stacco di testa perentorio di Pichlmann che spedisce il pallone in fondo al sacco. Per il Rocco e la Triestina è il colpo del kappaò. L’incubo del trittico che ha portato tre sconfitte un mese fa si rimaterializza. Ma adesso al traguardo mancano soltanto sette giornate. E ogni passo falso diventa decisivo.
ETICA MINIMA di PIER ALDO ROVATTI
Nella solenne celebrazione del Giovedì santo alla Basilica vaticana, il Papa – durante la sua omelia – se l’è presa con Nietzsche. Da tempo siamo abituati agli attacchi contro il relativismo della cultura contemporanea, ricordo solo l’enciclica “Fides et ratio” di Woytila. Ridotto all’osso, relativismo vuol dire che ciascuno pensa per conto proprio. Il contrario è il dogmatismo, parola alquanto sdrucciolevole: chi si dichiara dogmatico? Nessuno, ovviamente. E allora meglio parlare di Verità, facendo sentire bene l’iniziale maiuscola. Il relativismo è una cosa seria: filosofia ed epistemologia (cioè, la riflessione sulla scienza) ne discutono da anni, e attualmente c’è un diffuso consenso sul fatto che senza una quota di relativismo non si ha produzione di nuovo sapere. Anche la Verità è una cosa seria: come si declina questa verità al singolare con le verità al plurale che ormai abitano il nostro mondo? Nietzsche è un po’ il padre nobile dell’intera questione: a lui si attribuisce l’idea che le interpretazioni non siano fatti secondari ma il fulcro del problema.Tuttavia, Benedetto XVI, nell’omelia pasquale, non parla di relativismo. Nietzsche compare all’improvviso nella sua predica, come un fantasma fastidioso subito tacitato, unica presenza laica e attuale in una riflessione rituale e tutta evangelica, dedicata al tema della “consacrazione nella verità”. Una battuta lapidaria, a commento della superficialità del mondo di oggi: «Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo».Il tormentone sul relativismo viene così aggirato per andare a colpire la presunzione dell’uomo contemporaneo che non avrebbe più l’umiltà sufficiente per considerare l’obbedienza una virtù fondamentale. Lo spunto che il Papa introduce nel suo rapido excursus è parecchio interessante, perché appunto innalza l’obbedienza al rango di una virtù molto nobile (mentre Nietzsche l’aveva abbassata a comportamento del gregge) e la unisce strettamente alla Verità, a cui il fedele dovrebbe consacrare se stesso attraverso una rinuncia e una purificazione. Questa è infatti la preghiera di Cristo, nel Cenacolo, la sera prima della Passione: chiede che gli Apostoli, lì riuniti, siano consacrati nella verità, come sta facendo lui stesso, diventando a un tempo sacerdote e vittima. Un sacrificio di sé che si identifica con l’obbedienza alla parola veritativa.Lasciamo perdere, per ora, il fatto se si tratti qui di un atto di umiltà oppure no: se, cioè, il consacrarsi nella e alla Verità non possa essere considerato proprio come un gesto di grande presunzione, ammantato delle vesti dell’umiltà. Il pensiero debole, bersaglio abituale degli strali contro il relativismo, è, come si sa, una filosofia della pietas che tenta di combattere contro ogni poco umile pretesa di assoluto.Concentriamoci sull’obbedienza. Dietro e dentro l’obbedienza scorgiamo distintamente il potere, anzi il Potere. Il richiamo all’obbedienza, che ci farebbe uscire dalla ottusa passività del gregge nietzschiano, esorta la pecorella cristiana a riconoscere il “giusto” potere, che sta smarrendo, e ad adeguarvisi attraverso un atto di consapevole, vissuta e sofferta sottomissione. La esorta a liberarsi sottomettendosi. Dileggia (o, almeno, squalifica) la libertà in quanto tale, attraverso cui il gregge si sfascerebbe, e che ci esporrebbe a ogni pericolo, e vorrebbe convincerci che non c’è libertà per nessuno se questa libertà non si coniuga con un’ipotetica e presunta “buona sottomissione”.A mio parere, è un segnale di allarme che arriva (o si ripete) con incredibile e incolmabile ritardo sugli eventi che stiamo vivendo e che la Chiesa si ostina a non vedere. Queste stesse, identiche cose potevano essere dette quarant’anni fa, e forse Pasolini le avrebbe stigmatizzate in uno dei suoi articoli corsari. Da tempo, molto tempo, le pecore sono uscite o scappate dal recinto e non ci si dà alcuna pena per chiedersi (seriamente) come e perché ciò è avvenuto, e dunque per tentare di capire in quale società ci siamo imbarcati, tutti quanti. È comodo limitarsi a tirar fuori – ancora una volta – il vecchio Nietzsche come demone da esorcizzare.
di ROBERTA RIZZO
MILANO L’hanno costretta a dormire in una cuccia per cani, con i piedi e le mani legate da catene. È stata ridotta come una schiava e trattata peggio di un animale. Questa la sconvolgente storia di una romena di 18 anni arrivata in Italia per fare la badante. E invece i suoi aguzzini l’hanno sfruttata e minacciata, facendole subire sevizie e violenze inaudite. Botte e umiliazioni per costringerla a prostituirsi in strada.Gli sfruttatori sono un uomo di 32 anni e sua moglie di 21, anche loro romeni. A fare da carceriere alla vittima ci pensava il figlio della coppia diabolica, un quattordicenne che spesso abusava di lei tenendola legata con le catene.Quando i coniugi si sono trovati davanti ai carabinieri hanno cercato di negare ogni responsabilità ma ai loro polsi sono scattate le manette. A compiere l’operazione sono stati i carabinieri della compagnia di Porta Magenta di Milano, intervenuti grazie all’aiuto di un cliente occasionale della ragazza.L’assurda storia è iniziata due mesi fa quando la giovane romena è stata contattata dalla coppia di connazionali che l’hanno convinta a venire in Italia con la promessa di un lavoro da badante da svolgere a Milano. Ma appena è arrivata nella metropoli lombarda, con la speranza di fare una vita dignitosa, è stata portata in una baraccopoli, in via Selvanesco, in periferia. Appena giunta nella baracca sono scattate le sevizie. È stata violentata ripetutamente dall’uomo e dal figlio. Poi l’hanno fatta sedere in una cuccia per cani e le hanno detto che quello era il suo letto. Non poteva muoversi dall’angolo della baracca e ogni volta che si rifiutava di andare a prostituirsi in via Manduria, la riempivano di pugni e calci. I soldi guadagnati dal sesso a pagamento finivano nelle tasche della coppia di sfruttatori che le avevano anche tolto i documenti per paura che scappasse.La giovane è poi riuscita a raccontare il suo calvario a un cliente che si era accorto dei grossi lividi che aveva su tutto il corpo. Così la ragazza ha deciso di denunciare i suoi aguzzini spiegando ai carabinieri come era stata trattata e minacciata. I coniugi romeni sono stati arrestati per riduzione in schiavitù, violenza sessuale e sfruttamento della prostituzione. Anche il figlio quattordicenne è stato denunciato per gli stessi reati e ora si trova in un centro specializzato in attesa delle decisioni della procura minorile.
NEW YORK Fuoco incrociato su Barack Obama dopo la pubblicazione dei memorandum sulle torture permesse alla Cia di George W. Bush sugli uomini di Al Qaeda. Il presidente degli Stati Uniti è stato criticato da destra, per aver svelato nei dettagli i metodi brutali usati negli interrogatori, e da sinistra, per aver garantito l'immunità agli 007 che «in buona fede» li hanno posti in atto.Il capo dell'intelligence nazionale Dennis Blair ha risposto alla raffica di critiche affermando che gli Stati Uniti «non utilizzeranno più queste tecniche in futuro. Ma sono determinati a difendere quanti si sono conformati alle direttive». E lo stesso Obama non ha raccolto le accuse di aver scagionato chi, obbedendo agli ordini, ha eseguito atti che la sua stessa amministrazione ha giudicato «una pagina buia e dolorosa» nella storia d'America: «È gente che ha fatto il proprio dovere».A sparare a zero su Obama per l'immunità agli agenti della Cia sono state le organizzazioni per i diritti umani: «Il Dipartimento della Giustizia offre l'impunità a individui che, secondo lo stesso ministro della giustizia Eric Holder, hanno torturato prigionieri», ha protestato Larry Cox di Amnesty International, mentre Anthony Romero della Aclu (l'associazione libertaria American Civil Liberties Union) ha chiesto a Obama di affidare a un magistrato indipendente il compito di indagare e possibilmente ottenere il rinvio a giudizio di chi ha autorizzato e posto in atto metodi di tortura.Di tono opposto ma egualmente accese sono state le polemiche da destra: Obama «si lega le mani nella guerra al terrorismo», hanno sostenuto sul Wall Street Journal l'ex capo della Cia di Bush Michael Hayden e l'ex Attorney General della passata amministrazione Michael Mukasey.«La pubblicazione di queste opinioni non era necessaria dal punto di vista legale ed è stata poco saggia dal punto di vista politico: il suo effetto sarà di invitare quella forma di paura istituzionale di recriminazioni che indebolì le operazioni dell'intelligence prima dell'11 settembre», hanno scritto Hayden, al timone dell'agenzia di Langley dal 2006 al 2009, e Mukasey, alla Giustizia dal 2007 all'insediamento di Holder.Molte le obiezioni dei due esponenti dell'amministrazione Bush: tra queste che i documenti rivelano ai terroristi cosa aspettarsi in un interrogatorio della Cia se questi metodi, tra cui il «waterboarding» che simula l'annegamento, dovessero essere di nuovo approvati. In tutto i memorandum rivelano 14 tecniche di interrogatorio su cui l'amministrazione Bush aveva dato luce verde: del waterboarding molto era noto, meno noti i particolari sulla privazione del sonno (per undici giorni di seguito) o il confinamento in una scatola buia dove venivano fatti entrare insetti sfruttando le fobie del detenuto.Presi nel loro insieme i quattro memorandum gettano luce non solo sui metodi della Cia ma sugli sforzi del Dipartimento della Giustizia di giustificarli alla luce del diritto nazionale e internazionale. Passaggi sulla nudità forzata, le docce gelate e le percosse si alternano con discettazioni giuridiche sulla Convenzione Internazionale contro la tortura.I documenti sono stati resi pubblici con pochissime censure, segno che Obama ha preso le distanze dalle richieste della Cia di mantenere segreti i dettagli degli interrogatori. Lo stesso capo della Cia della nuova amministrazione, Leon Panetta, aveva sostenuto che, rivelando queste informazioni, si sarebbe creato un precedente per future pubblicazioni di metodi di raccolta dell'intelligence.
di MILENA VERCELLINO
TORINO Dopo la tragica rapina che ha portato alla morte del «re del grano» Franco Ambrosio nella sua villa di Posillipo, due assalti in stile Arancia meccanica hanno scosso giovedì notte dal torpore del sonno la ricca provincia del Nord Italia. Uno poco prima di mezzanotte in una cascina di Leini, nel Torinese, l’altro alle prime luci dell’alba in una villa di Asiago, nel Vicentino: due raid fotocopia, che hanno avuto come protagonisti due bande di malviventi, forse di nazionalità esteuropea, e come vittime due coppie di anziani coniugi.Nel primo caso, è stata presa d’assalto una cascina nelle campagne piemontesi dove abitano Italo Tedoldi, 74 anni, e Pasqualina Rubatto, 70 anni. Poco dopo le 23 cinque persone, a volto coperto e armate di bastoni e di una pistola, si sono introdotte nell’abitazione ed hanno aggredito i due anziani, picchiandoli e intimando loro di consegnare i soldi custoditi nella cassaforte. Terrorizzati, i padroni di casa hanno risposto di non possedere una cassaforte ma soltanto denaro contante.Durante la rapina, però, è rincasato il figlio della coppia, Davide, di 29 anni: quando ha tentato di reagire i «Drughi» lo hanno assalito e ripetutamente colpito alla testa con il calcio della pistola e con un bastone. Poi si sono dileguati nella notte, portandosi dietro un bottino costituito da 2500 euro in contanti, due fucili da caccia, diversi gioielli in oro ed un assegno da 18mila euro ancora da riscuotere, in pagamento per la vendita di due tori conclusa proprio quella mattina. Alle spalle si sono lasciati il giovane gravemente ferito. Portato all’ospedale, è stato operato per la riduzione del trauma cranico e non è in pericolo di vita.Dalla stessa sorte i coniugi si sono salvati con uno stratagemma: per sfuggire alla furia dei banditi i due anziani si sono infatti finti morti. «Se non avessimo fatto così, ci avrebbero ammazzato», dice Teodoldi. «Volevano le chiavi della cassaforte, noi abbiamo provato a dire che non c’era nulla e hanno iniziato a picchiarci. Erano delle belve, hanno massacrato mio figlio Davide», racconta l’anziano. I carabinieri del nucleo provinciale di Torino stanno ora raccogliendo indizi per acciuffare i malviventi.E a dare un sapore da Bonnie e Clyde alla vicenda, secondo le prime informazioni, tra i banditi potrebbe esserci una donna.Il secondo tempo di questa «Arancia meccanica» della pianura Padana si è svolto all’altro capo della notte, alle prime luci dell’alba. Quattro rapinatori, a volto scoperto e dal forte accento dell’Europa dell’Est si sono avvicinati ad una villa adagiata sull’altopiano di Asiago. Qui stavano dormendo nella camera da letto Enrico Vescovi, un ingegnere di 60 anni, e la moglie Nadia Rela, 58, casalinga.I banditi hanno divelto la porta basculante del garage e si sono introdotti nell’abitazione, cominciando a raccogliere un lauto bottino. Dopo un po’, però, i rumori hanno svegliato i padroni di casa, che si sono alzati ed hanno cercato di opporsi alla rapina. I malviventi hanno reagito a suon di pugni e sassate, colpendo i coniugi con pietre che avevano raccolto in giardino e ferendo l’uomo alla testa e al busto e la donna al piede. Poi, la fuga, nientemeno che su una Jaguar, risultata rubata lo scorso 2 aprile nel Trevigiano.A bordo, gli oggetti trafugati dalla villa: tappeti antichi, statue, un pc, gioielli, orologi di valore e quadri d’autore per un valore di oltre 50mila euro. Intanto, superato lo choc iniziale, i rapinati hanno chiamato i soccorsi. Se la sono cavata con ferite giudicate guaribili rispettivamente in 30 e 40 giorni.
L’ex Santorio diventa Sissa da ospedale a luogo di scienza di FURIO BALDASSI
Per anni quel profilo architettonico quasi incastrato nel monte, sentinella non dichiarata dell’ingresso in città, è stato abbinato a storie da raccontare sottovoce. Storie di sofferenze. Malate «di petto», venivano pudicamente chiamate le persone colpite da tubercolosi e altre sindromi respiratorie, che in quel gigantesco edificio ritrovavano, magari dopo anni, la salute perduta. Ora quello stesso complesso, praticamente rifatto ex novo, starà là a simboleggiare, non solo retoricamente, la vocazione scientifica di Trieste e, in tempi di magra assoluta, la sua straordinaria capacità di rinnovarsi comunque. «Un miracolo, un miracolo», chiosa Stefano Fantoni, direttore della Sissa (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) godendosi dall’alto, nel suo ufficio ancora senza mobili situato al 7° piano, nella parte centrale, con una spettacolare vista su Trieste e il golfo, lo stato d’avanzamento del cantiere, giunto praticamente agli ultimi ritocchi.A fine giugno, perfettamente in linea con le previsioni, la ditta Maltauro di Vicenza, che con un’ardita joint-venture tra pubblico e privato è riuscita a trasformare in realtà il sogno di Fantoni e dell’intero mondo scientifico locale, consegnerà alla Sissa le chiavi dell’edificio. Comincerà a quel punto la complessa operazione di trasloco dalle attuali palazzine di via Beirut, che dovrebbe essere ultimata entro l’anno. Tra la fine di dicembre e i primi di gennaio è prevista infine l’inaugurazione ufficiale, con la sicura presenza del ministro Gelmini.Tre anni e sei mesi dopo la partenza dei lavori (l’accordo di programma dell’opera era stato firmato il 15 dicembre del 2005) l’istituzione potrà contare sulla sua nuova sede. Anzi, come annota Fantoni, «sulla prima vera sede», trattandosi di un complesso che ha recepito punto per punto i «desiderata» di docenti e ricercatori ed è stato interamente sagomato a loro uso e consumo. Il progetto riguarda un totale di 114mila metri quadrati (4.400 dei quali coperti) e ha portato finora alla realizzazione di spazi per circa 1.500 metri quadrati destinati ai laboratori, di un asilo per i figli dei dipendenti ricavato da una vecchia chiesetta, parcheggi sotterranei e vari edifici destinati a ospitare le attività editoriali di Sissa Medialab, uffici, mensa, palestra e scuole estive. Di rilievo, come racconta Adriano Rocca, dirigente alle finanze e patrimonio della Sissa, è il fatto che nell’intero comprensorio, per rispettare l’ambiente, le macchine risulteranno praticamente invisibili.«Abbiamo realizzato questi 212 parcheggi sotterranei per le auto, cui vanno aggiunti 32 stalli per motocicli proprio per non turbare l’armonia di questa costruzione interamente immersa nel verde». Attualmente è in corso l’implementazione del parco, che sarà aperto alla cittadinanza e ospiterà percorsi artistici e scientifici, oltre a un orto botanico e un roseto. A conti fatti l’intera operazione verrà a costare quasi 50 milioni di euro (49 per la precisione) senza aver sforato il budget previsto, rispettando tempi e specifiche e regalando alla comunità una delle cittadelle scientifiche più all’avanguardia in Europa. «Andava fatto, andava fatto», commenta deciso l’ingegner Marco Banzato, direttore dei lavori e referente di quella Maltauro che si è esposta direttamente, comperando l’ex Santorio dalla Regione e mettendolo a posto in attesa del rogito finale, previsto a luglio, che vedrà la proprietà passare nelle mani della Sissa.Tecnicamente parlando si può parlare di un restauro conservativo, visto che le parti più interessanti del complesso, dai gradini interni di marmo ai vecchi frangisole dei balconi che difendevano i pazienti dal sole costante (l’area è esposta a Sud) sono stati salvati e rimessi a nuovo. Salvate anche le opere d’arte che arricchivano l’ex ospedale, ma se nel caso delle tele di Russian non ci dovrebbero essere problemi per recuperarle (le conserva la Regione), pare che le sculture di Ugo Carà che adornavano la cappella difficilmente torneranno al loro posto. «Le abbiamo restituite alla Curia – ammette Fantoni – ma mi pare di capire che non abbiano intenzione di rimetterle a nostra disposizione».Internamente gli spazi, per ovvi motivi, sono stati interamente risagomati. Sono già praticamente pronte varie aule, compresa una con una parete rimovibile che consente una supercapienza di oltre 100 posti, e i laboratori attendono solo le attrezzature. Nelle intenzioni le aule dovrebbero essere dotate quasi tutte di strumenti per la proiezione, anche per assecondare un progetto ambizioso. «Miriamo a filmare tutte le nostre lezioni – racconta Fantoni – per metterle poi a richiesta a disposizione della comunità scientifica internazionale».
È IN CONDIZIONI SEMPRE PIù PRECARIE: VA SALVATO
di FURIO BALDASSI
Ingombrante lo è di certo, con la sua altezza di 80 metri e una base di quelle che si è soliti definire importanti. Solo che, mentre tiene banco il dibattito su dove collocarla, l’«Ursus», la gru galleggiante più grande del mondo, ha rischiato seriamente di venir «suicidata», complici le infiltrazioni d’acqua accumulate durante il periodo di stazionamento provvisorio, sei mesi, davanti alla Diga vecchia. «È vero – conferma Roberto De Gioia, presidente della Guardia costiera ausiliaria che ha in gestione la struttura – in quella collocazione, in balia delle correnti e delle piogge la gru ha imbarcato acqua. Non dal fondo, come si potrebbe pensare, visto che la carena, grazie a 150mila euro stanziati dalla Regione, era stata rimessa a posto, ma dalla superficie del ponte, caratterizzata da numerosi buchi. In questi giorni lo svuoteremo con le pompe, nella collocazione provvisoria di Marina San Giusto, per la quale non ci stancheremo di ringraziare il patron Mariani». Il discorso di De Gioia, a parte la «passione» nutrita per questo autentico reperto di archeologia industriale, nasce anche da altre considerazioni. «Dalla Bavisela, al Giro d’Italia alla manifestazione di Mtv, ci aspettano una serie di iniziative che non mancheranno di far affluire, soprattutto sulle Rive, il pubblico delle grandi occasioni. Quale migliore opportunità dunque – incalza De Gioia – per far ammirare a tutti quello che è anche un segno molto evidente della storia navale e cantieristica della nostra città?»Il presidente della Guardia costiera ausiliaria, dopo l’apprezzamento espresso dall’assessore Paolo Rovis, trova subito un altro alleato di peso nello stesso sindaco Roberto Dipiazza. «Proprio oggi (ieri ndr) ho telefonato a Ungaro della Trieste terminal passeggeri. Mi piacerebbe vedere ormeggiato l’Ursus in testata della Stazione Marittima. Potrebbe stare lì fisso, ovviamente fissato con dei cavi d’acciaio e ridipinto in maniera acconcia... Può veramente diventare un simbolo della città. Diventerebbe un luogo di visita importante. Se non ci fosse la possibilità di attaccarlo alla Marittima – continua Dipiazza – una possibile alternativa sarebbe la testata del molo IV. Penso che un ascensore panoramico con qualche centinaia di migliaia di euro si possa realizzare. Se poi arriva il sommergibile e quant’altro previsto per il polo museale del porto tutti i tasselli andrebbero a posto... È un’idea molto ma molto buona».Intanto De Gioia, ringraziando Rovis, «che comunque ha prefigurato soluzioni già contenute nello studio di fattibilità dell’architetto Angiolini presentato alla Regione», anticipa la «sicura» visita del presidente della Regione, Renzo Tondo, nei prossimi giorni. Porterà doni?
INTANTO FIUME RESTAURA LE BANCHINE
di ENRICO TANTUCCI
VENEZIA I porti dell'Adriatico fanno sistema per migliorare le infrastrutture e le connessioni con i principali assi ferroviari presenti sul loro territorio, ma anche per intercettare i flussi di traffico proveniente dall'Europa Orientale e dai Balcani. Non è una rivoluzione, ma un primo passo concreto nella direzione dell'integrazione, quello che hanno compiuto ieri a Venezia il porto lagunare, insiene a quelli di Ravenna, Trieste e Capodistria, in Slovenia. Grazie all'accordo, la cooperazione tra i quattro scali - pur restando anche in un regime di logica concorrenza - porterà a politiche e attività comuni.In questo modo i quattro porti del nord Adriatico potranno presentarsi come un unico grande scalo _ con lo stesso peso di quelli della fascia tirrenica _ per la movimentazione di merci e passeggeri, grazie anche alla previsione di un potenziamento delle connessioni dei principali assi ferroviari che collegano i diversi porti ed alla creazione di uno sportello unico informatico per prenotare i servizi.L'accordo, che sarà aperto all'adesione di altri porti, ed in particolare che si estenderà sino a Fiume, in Croazia, non appena entrerà nell'Unione Europea, è stato promosso proprio dall'Ue, con lo scopo di creare alternative ai porti tradizionali del nord. «La cosa sicura - ha detto Luis Valente de Oliveira, coordinatore europeo delle autostrade del mare, presente ieri alla firma negli uffici dell'Autorità Portuale veneziana - è che l'Europa ha bisogno di più porti e di migliori collegamenti tra porti e territorio, per minimizzare la lunghezza del collegamento tra produttori e consumatori. In questo senso, il nord Adriatico fornisce una straordinaria concentrazione di porti, che potenzialmente costituiscono un ottimo mezzo di collegamento tra il sud ed il resto dell'Europa, tra il Mediterraneo ed il resto del mondo».Il porto di Trieste guarda al futuro per superare la crisi che, come ogni altro settore, ha colpito anche i trasporti via mare. «Quest'anno - ha spiegato a Venezia il presidente Claudio Boniciolli- cercheremo di resistere alla crisi generale, con due grandi obiettivi: il primo è cercare di superare la congiuntura senza riflessi negativi per l'occupazione portuale, e non solo per un sentimento di solidarietà verso i lavoratori ma anche per salvare le esperienze e le competenze acquisite negli anni dagli stessi in ambito portualei». La crisi ha avuto un diverso impatto sui vari settori: «Le merci hanno sofferto - ha detto Boniciolli - ma c'è qualche segno di ripresa, sia per quanto riguarda i traghetti verso la Turchia sia per le merci in generale, che ci fanno sperare che la crisi sia già superata. Ho parlato con gli operatori del nostro porto, tra cui Msc, e mi hanno confermato che Cina ed estremo oriente si stanno rialzando, il che ha comportato una lieve ripresa della domanda». Intanto il Porto di Venezia prosegue con i progetti già avviati per il 2009 ed il 2010, che guardano anche ai bivi per l'innesco con la linea ferroviaria per Tarvisio, come ha ribadito ieri il presidente Paolo Costa.
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