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mercoledì 18 febbraio 2009

SONO ENTRATO NELLA RISIERA DI SAN SABBA... (ARTICOLO di MARCO TORBIANELLI)


(nella foto il 'Monumento ad Auschwitz' (Marcello Mascherini, 1959) che si trova nel Museo della Risiera di San Sabba, immagine tratta da www.immaginidistoria.it)

Mi ci sono voluti 37 anni, ma ieri mi sono deciso e sono entrato nella Risiera di San Sabba a Trieste, unico campo di concentramento nazista in Italia provvisto di proprio impianto di cremazione (e non lo dico con orgoglio…).
Quello che fu costruito nel 1913 come impianto di pilatura del riso, a partire dal settembre del 1943 – anno di inizio della cosiddetta “soluzione totale” di Hitler, l’eliminazione degli ebrei – divenne prima campo di prigionia provvisorio per i militari italiani (un cosiddetto “Stalag”, acronimo per “Stammlager”, campo permanente per prigionieri di guerra) e poi, dall’ottobre dello stesso anno, campo di detenzione di polizia (Polizeihaftlager), destinato allo smistamento dei prigionieri verso i campi di concentramento in Germania e Polonia, al deposito dei beni agli stessi razziati e alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei (è stato calcolato che siano state circa 5.000 le persone che non vi sono mai uscite vive).
Quindi la Risiera era una sorta di universo concentrazionario, quale luogo di passaggio, di lavoro e di sterminio e conservava delle macabre peculiarità: le persone all’interno vivevano a stretto contatto con la morte, con i carnefici e il tutto avveniva all’interno del perimetro urbano della città, in una zona già allora densamente popolata, il che fa capire quale fosse il livello di protettorato fascista della città. L’interesse della Germania per Trieste, infatti, era fondamentalmente dato dalla sua naturale posizione geografica, sia per il suo sbocco sul Mare Adriatico, sia perché la zona era strategicamente importante quale cerniera tra il fronte italiano e il fronte balcanico.
Attraverso l’ingresso con timoroso rispetto, arrivo nel cortile interno e mi fermo sulle piastre in metallo che ricordano dov’era il forno crematorio (fatto saltare nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945 per cancellare le prove): tra pochi visitatori tutti in silenzio, osservo le alte pareti che si stagliano attorno, minacciose, possenti, che tolgono spazio al cielo e tolgono il fiato a chi le guarda, silenziose testimoni di un passato che ci appartiene. Nel loro interno la sala della morte, le micro celle di tortura e di detenzione in attesa della morte, la caserma, i magazzini, le camerate, tutto dorme di un sonno pieno di incubi, fatti di gente, di grida, di scritte, di terrore, di rassegnazione, di incredulità, di morte.
Resto fermo parecchio tempo nella stanza della morte, in un silenzio assordante, cerco di immaginarmi dentro quella stanza sessantacinque anni fa, in mezzo ai cadaveri, in mezzo a quelle persone ancora vive ma chissà per quanto, cerco di immedesimarmi in chi attende di conoscere il proprio destino di lì a poco, appoggio le mie mani ai muri di quella stanza, pensando a quante persone abbiano fatto lo stesso, magari nel tentativo di alzarsi, magari in un pianto disperato, magari solo per lasciare un segno indelebile della loro esistenza, barbaramente spezzata per un’assurda ideologia.
Chiudo gli occhi e torno indietro nel tempo, sento i motori dei camion e l’odore dei loro mortali gas di scarico, sento i latrati dei cani aizzati per coprire le grida di chi viene torturato, sento le marce tedesche diffuse dagli altoparlanti per azzerare i pensieri di chi aspetta, sento i soldati tedeschi marciare, gridare, insultare, colpire, trascinare, spingere.
Il rumore dei tacchi delle scarpe di una visitatrice mi risucchia nel presente e allora decido di spostarmi ed entro nello stanzone delle celle, talmente piccole che il solo pensiero che vi venivano stipati fino a sei prigionieri mi costringe lo stomaco e le spalle, gli abiti che indosso mi sembrano stretti, i polmoni sembrano non trovare più una cassa toracica dove espandersi. Non mi arrischio ad entrare fisicamente in quei loculi, ma non mi riesce difficile entrarci col pensiero, trasportarmi nuovamente al 1944, per tentare di provare quel che sentivano sulla loro pelle i prigionieri, lasciati al buio anche per giorni interi, senza mangiare, senza potersi lavare, sperando di ricevere al più presto la loro mezz'ora di luce per potersi spidocchiare in maniera sufficiente fino alla volta successiva.
Ormai è buio, i riflettori creano dei giochi di luci e ombre che rendono la Risiera ancora più minacciosa e tale che in un siffatto ambiente i pensieri possano tornare ancor più facilmente indietro nel tempo.
Con passo pesante guadagno l’uscita e mi rendo conto che riuscire a trasportarsi mentalmente a quello che fu è tanto tremendo quanto doveroso e necessario, nella convinzione che la consapevolezza sia il fondamento della democrazia.
MARCO TORBIANELLI


Ricordiamo che fino al 10 maggio è visitabile in Risiera la mostra “Mario Moretti. Le opere della prigionia (1943-1945)”, centocinquanta disegni e il diario della prigionia del pittore e scultore Mario Moretti (Reggio Emilia 1917 – Pordenone 2008), realizzati nell'anno e mezzo trascorso come Internato militare italiano (Imi) in tre diversi lager, prima in Polonia e successivamente in Germania.

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